

Nell’ultima parte del capitolo Aue, in preda alla dissenteria e ai morsi della fame, ormai allucinato, s’avventura a piedi sul Volga ghiacciato quando viene ferito alla testa da un cecchino.
La prima volta che ho sentito parlare di questo romanzo è stato all’incirca un anno fa, quando un mio amico sceneggiatore mi ha telefonato da Parigi, dove attualmente vive, per dirmi che stava leggendo un libro formidabile, destinato a sollevare un enorme scalpore in Francia.
Era stato profeta poiché Les Bienviellantes, questo il titolo in originale del romanzo scritto da Jonathan Littel, non solo ha venduto oltralpe due milioni di copie ma ha sollevato dibattiti e infinite discussioni. Il romanzo, monumentale con le sue 950 pagine, affronta gli orrori del secondo conflitto mondiale e la Shoah raccontandola dal punto di vista dei carnefici. Il protagonista della storia è Maximilian Aue, un laureato in legge arruolatosi per convenienza nelle SS poco prima della guerra che, per una serie di circostanze fortuite, si trova a essere testimone di tutti i più tragici eventi bellici del secondo conflitto mondiale, dall’invasione in Russia, all’assedio di Stalingrado, fino al bunker di Berlino a fianco al Fürher dove si consuma il tragico epilogo della guerra.
L’autore è un quarantenne newyorchese di origini ebree alla sua seconda prova come scrittore, con un passato nelle associazioni umanitarie, dove ha lavorato come volontario, soprattutto nella ex Jugoslavia durante la guerra civile. Littel ha studiato per dieci anni tutta la documentazione esistente sull’Olocausto prima di iniziare a scrivere il suo libro in francese, vincendo il Prix Goncourt e il Grand prix du roman de l'Académie française 2006. Dal punto di vista storico il romanzo è accurato a tal punto che persino lo storico Claude Lanzmann, autore del documentario Shoah (edito in DVD da Einaudi) ha ammesso che Le benevole racconta in maniera accurata e il genocidio messo in opera dai nazisti. Ricordiamo che Lanzmann, come lo stesso Primo Levi, sostiene la tesi che l’arte non è in grado di raccontare l’Olocausto. Ogni tentativo di affrontare il genocidio degli ebrei è pertanto una speculazione artistica rivoltante da rigettare in toto. È per tale motivo che egli ha stroncato sia Schindler’s List di Spielberg che Il Pianista di Polanski.
Il titolo del libro si riallaccia alla mitologia greca e in particolare all’Orestea di Eschilo. Oreste, perseguitato dalle Erinni per avere assassinato la madre, si rifugia ad Atene. Qui riesce a convincere le Erinni che vogliono vendicare la morte di Clitennestra a diventare Eumenidi, cioè benevole (dal greco euméneia, ovvero benevolenza). Non più dee della vendetta ma custodi della giustizia. È chiara l’identificazione di Max Aue con Oreste. Come lui egli è spinto dal cupo risentimento familiare a commettere efferati crimini contro l’umanità. E tuttavia, anche lui come Oreste, non verrà punito per i suoi peccati se non dal doloroso rimorso instillatogli dalle Benevole.
Riepilogare in poche righe tutti gli eventi descritti con furore ne Le benevole è un’impresa ardua, tale e tanta è la mole di informazioni contenuta nel libro. La lettura richiede molta pazienza e coraggio, giacché Littel non distoglie lo sguardo di fronte agli episodi più atroci ma al contrario li descrive con una minuzia di particolari, destinati a provocare raccapriccio nel lettore. Il romanzo è diviso in sette parti, distinte con i nomi di sette movimenti musicali. Nei prossimi giorni racconterò la storia de Le benevole capitolo per capitolo.
100 anni di vampiri
A cosa è dovuto il successo di questo libro è presto detto: il conte Dracula. L’invenzione di Bram Stoker continua a fare proseliti a oltre 100 anni dalla sua apparizione letteraria. A cicli ricorrenti, infatti, assistiamo all’aggiornamento, sotto angolazioni differenti, di questo archetipo narrativo del male.
Negli anni ’50 Richard Matheson aggiornò il mito del vampiro con il classico Io sono leggenda (1954), destinato a diventare una delle pietre angolari del genere.
Nel 1975 Stephen King ha riproposto i succhiasangue con Le notti di Salem (recentemente ristampato da Sperling & Kupfer con la traduzione di Tullio Dobner in un’edizione che raccomando caldamente), nel quale il vampirismo si diffondeva a macchia d’olio come un’epidemia malefica e inguaribile, proprio come nel romanzo di Matheson.
Solo un anno dopo fu la volta di Anne Rice che con il celebre Intervista col vampiro (1976), diede il via alle sue affascinanti The Vampire Chronicles. La scrittrice di New Orleans ha avuto il merito di sviluppare il personaggio del vampiro abbandonando per sempre l’iconica figura di mostro assetato solo di sangue in una creatura immortale melanconica e disperata.
Laurell K. Hamilton, invece, ha condensato negli anni ‘90 l’idea kinghiana di una stirpe maligna e indistruttibile, con quella melanconica della Rice in una saga che, a partire da Nodo di sangue (1993) per ben 14 capitoli ha come protagonista la sterminatrice di vampiri Anita Blake. Sono storie ad alto tasso emoglobinico, scritte con un ritmo cinematografico e a volte fumettistico, dall’indiscutibile presa narrativa.
Infine, in tempi più recenti si è fatta strada l’immagine del vampiro eroe romantico e maudit. Ne ha colto l’essenza Stephenie Meyer con la sua trilogia – Twilight (2003, Fazi Editore), New Moon (2006, LanFazi Editore), Eclipse (2007) – laddove il suo Edward è addirittura addomesticato all’idea del sangue e coltiva la speranza d’intrattenere una storia romantica con l’umana Bella.Il vero Dracula tra Storia e Leggenda
Ma torniamo a Il discepolo. In cosa si contraddistingue questo romanzo dalle dimensioni bibliche (nella versione economica sono ben 668 pagine), rispetto ai suoi autorevoli predecessori?
Innanzitutto dall’immagine che la Kostova vuole dare del suo Dracula. L’approccio dell’autrice è scientifico e non mitologico. Ecco allora che i vari personaggi, spinti dal libro magico che appare loro nelle biblioteche di tutto il mondo, si confrontano con la vita di Vlad Tepes III, detto l’impalatore, per via delle sue sanguinarie abitudini. Il principe della Valacchia è stato a metà del ‘500 il difensore della cristianità contro il saladino Mehmed II che conquistò Istanbul. Come è possibile che quest’uomo crudele sia divenuto un vampiro, che ancor’oggi imperversa nelle capitali di tutta Europa e d’oltreoceano è quello che cercano di scoprire prima il rinomato professore Bartholomew Rossi, scomparso dal suo studio a Oxford in circostanze misteriose, poi il suo allievo Paul e la figlia stessa di Rossi, Helen, infine la figlia di Paul e il suo fidanzato Barney. Il mistero si svela a poco a poco in un tortuoso viaggio che porta i protagonisti da Istanbul a Budapest, passando per Sofia e poi in Transilvania.
Troppo serio...
Le ambizioni della Kostova sono alte. Ella, infatti, non si confronta semplicemente con un genere ma tenta di realizzare un’opera dotta e accurata, non a caso il titolo originale del volume è The Historian, ovvero Lo storico. La scrittrice rivela tramite i suoi personaggi, guarda caso tutti storici di professione, la sua conoscenza della storia medievale e delle usanze di un mondo, quello dell’Europa Orientale, a metà strada tra Oriente e Occidente. Ne risulta una lettura per certi versi affascinante, soprattutto nella descrizione dell’esotica Istanbul degli anni ’50 e del mondo oltrecortina in piena guerra fredda, per altri un po’ soporifera. In tutta onestà, pur riconoscendo i meriti del libro non si può affermare che la Kostova possieda il senso del ritmo e della suspense. Troppo spesso, infatti, la vicenda s’impantana nelle lunghe disquisizioni accademiche dei protagonisti. A nostro modesto avviso queste vanno saltate a pié pari se non si vuole correre il rischio di abbandonare la lettura prima della conclusione del libro.
Alle origini del Mito
L’impianto narrativo è simile a quello de Il codice Da Vinci. I protagonisti principali sono alla ricerca del loro Graal, in questo caso la tomba di Dracula, e la loro indagine procede decodificando brani oscuri tratti da volumi d’epoca smarriti in librerie polverose. Rispetto al best seller di Dan Brown le informazioni svelate su Vlad l’impalatore sono molto accurate, non a caso l’autrice ha speso dieci anni nella composizione del libro.
Il libro è costruito in maniera epistolare, come in Dracula di Bram Stoker. La narrazione è portata avanti a più voci e questo rende frammentaria la lettura del libro, rendendola in alcuni casi ferraginosa. Mentre nell’opera di Stoker questa particolare costruzione è uno dei punti di forza del libro nel caso de Il discepolo si rivela una scelta priva di un’autentica necessità narrativa. Un altro elemento a sfavore del romanzo risiede paradossalmente proprio nel personaggio centrale sul quale è incentrata la storia. Dracula appare infatti solo a pagina 596. Il principe del male aleggia minaccioso sui protagonisti della vicenda senza assumere mai le dimensioni di un antagonista indistruttibile, come è doveroso aspettarsi in un romanzo costruito proprio sulla sua figura.
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